Una volta decisa la data della nostra partenza dalle Marchesi, queste sembrano volersi far perdonare i vari giorni di maltempo con un’inattesa sorpresa. Nel centro della baia di Nuku Hiva, dove siamo alla fonda con parecchie altre imbarcazioni, ci accorgiamo di un insolito movimento. I nostri amici spagnoli del Sikkim sono già là con il tender. Ci precipitiamo dopo aver preso pinne e maschere. È un “festino” di mante. Ce ne sono a decine. Ci buttiamo subito in acqua. Sembra di essere su di una strada ad alto scorrimento dove le mante si susseguono una dietro l’altra sfiorandoti. Se le tocchi dopo che ti hanno visto, praticamente non reagiscono. Volteggiano mostrando i loro ventri bianchi per poi rimettersi in carreggiata e via a bocca aperta per filtrare più plancton possibile.
Ciao Marchesi!
Dopo soli 3 giorni di navigazione il paesaggio cambia radicalmente. All’alba del 12 giugno avvistiamo il nostro primo atollo delle Tuamotu, Raroia, circondato da una barriera corallina affiorante che protegge la laguna interna. Le Tuamotu furono battezzate dai navigatori del passato ‘arcipelago pericoloso’ a causa dei rischi che comportava la navigazione in queste acque. Il primo ostacolo è l’accesso all’interno degli atolli, costituito da una pass (apertura della barriera corallina), in cui il flusso di corrente, entrante o uscente, può essere molto forte, ed è determinato da diversi fattori: la marea, l’intensità del vento e lo stato del mare. Abbiamo letto pagine e pagine di documentazione su come affrontare le pass: il momento migliore è al cambio di marea (slack in inglese), che concede qualche minuto di calma prima dell’inversione di corrente.
Ma... tra il dire e il fare... ci sono la tabelle delle maree, qui inesistenti, salvo per gli atolli più importanti. Risultato: passiamo 6 ore fuori dalla pass di Raroia, ad osservare e sperimentare quel fiume in piena che esce dalla laguna, prima di deciderci ad affrontarla nel momento in cui ci sembra che il flusso sia in diminuzione. Attraversiamo più volte la parte esterna della pass dove ZoomaX e Sikkim vengono letteralmente trascinate via dalla corrente. Da bordo la percezione del fenomeno è meno netta ma, osservando la barca che ti precede entrare nel flusso l’impressione è forte.
In queste acque tumultuose, tonni e grossi tursiopi cacciano e giocano.
Dopo soli 3 giorni di navigazione il paesaggio cambia radicalmente. All’alba del 12 giugno avvistiamo il nostro primo atollo delle Tuamotu, Raroia, circondato da una barriera corallina affiorante che protegge la laguna interna. Le Tuamotu furono battezzate dai navigatori del passato ‘arcipelago pericoloso’ a causa dei rischi che comportava la navigazione in queste acque. Il primo ostacolo è l’accesso all’interno degli atolli, costituito da una pass (apertura della barriera corallina), in cui il flusso di corrente, entrante o uscente, può essere molto forte, ed è determinato da diversi fattori: la marea, l’intensità del vento e lo stato del mare. Abbiamo letto pagine e pagine di documentazione su come affrontare le pass: il momento migliore è al cambio di marea (slack in inglese), che concede qualche minuto di calma prima dell’inversione di corrente.
Pass di Raroia |
Ma... tra il dire e il fare... ci sono la tabelle delle maree, qui inesistenti, salvo per gli atolli più importanti. Risultato: passiamo 6 ore fuori dalla pass di Raroia, ad osservare e sperimentare quel fiume in piena che esce dalla laguna, prima di deciderci ad affrontarla nel momento in cui ci sembra che il flusso sia in diminuzione. Attraversiamo più volte la parte esterna della pass dove ZoomaX e Sikkim vengono letteralmente trascinate via dalla corrente. Da bordo la percezione del fenomeno è meno netta ma, osservando la barca che ti precede entrare nel flusso l’impressione è forte.
In queste acque tumultuose, tonni e grossi tursiopi cacciano e giocano.
Gli amici del Sikkim fanno strada con uno di loro sulla seconda crocetta dell’albero del loro Bavaria 37, per avere una migliore visibilità. Noi li seguiamo a ruota.
È da brivido. La corrente contraria è di circa 4 nodi, quindi avanziamo lentamente con le barche che tendono ad intraversarsi nei gorghi formati dalla corrente. Dopo pochi minuti siamo dentro e tiriamo un sospiro di sollievo!
Ma non è finita. Per raggiungere il lato est dell’atollo, più ridossato dall’aliseo, dobbiamo attraversare la laguna, che è costellata di pericoli: colonne di corallo affioranti (che qui chiamano patate), boe semi-sommerse degli allevamenti di perle rendono il tragitto un percorso ad ostacoli. Le ‘patate’ più grandi sono facilmente individuabili, ma alcune sono piccole e meno superficiali, visibili soltanto all’ultimo momento.
Ma non è finita. Per raggiungere il lato est dell’atollo, più ridossato dall’aliseo, dobbiamo attraversare la laguna, che è costellata di pericoli: colonne di corallo affioranti (che qui chiamano patate), boe semi-sommerse degli allevamenti di perle rendono il tragitto un percorso ad ostacoli. Le ‘patate’ più grandi sono facilmente individuabili, ma alcune sono piccole e meno superficiali, visibili soltanto all’ultimo momento.
Si naviga a vista quindi è fondamentale che il sole sia alto e mai di fronte, visto che la cartografia da queste parti è inesistente. Facciamo lo slalom per 7 miglia, fino a quando raggiungiamo il nostro punto di ancoraggio, protetti da una piccola isola, un motu. Ed è il paradiso!
Dopo qualche giorno ci raggiunge anche Refola, l’Amel Supermaramu con a bordo Lilli e Sandro, una coppia di Verona che sta navigando insieme a degli amici.
Andiamo a curiosare in una ‘ferme perlier’ dove veniamo accolti con calore e Jiji, la capa, ci mostra il processo di produzione delle perle.
Andiamo a curiosare in una ‘ferme perlier’ dove veniamo accolti con calore e Jiji, la capa, ci mostra il processo di produzione delle perle.
Le giovani ostriche vengono fatte crescere per 4-6 mesi dentro a delle piccole gabbie di rete, immerse in mare.
Trascorso il periodo vengono tirate fuori dall’acqua e, dopo aver praticato loro un piccolo foro sul guscio, vengono appese 2 a 2 ad una cima, tramite un filo di nylon. Le cime vengono calate in mare ad una profondità da 3 a 8 metri.
Dopo un anno circa, le ostriche vengono riportate in laboratorio per il ‘greffage’. Questa fase delicata, a Raroia, viene eseguita da 4 ‘chirurghi’ cinesi. L’attività consiste nell’inserire nella tasca delle gonadi dell’ostrica un nucleo ed un piccolo pezzo di mantello, da cui si svilupperà la perla. Per fare questo il ‘greffeur’ apre le ostriche di un centimetro con una pinza divaricatrice, e con dei ferretti sterili incide la tasca, vi inserisce un piccolo nucleo (di plastica) ed un pezzettino di mantello, la madreperla che ricopre l’interno dei gusci. La selezione del mantello viene fatta preventivamente scegliendone con cura il colore in quanto sarà questo a determinare quello della perla. Terminata questa operazione le ostriche vengono riportate in mare, ora appese singolarmente alla cima, ad una distanza di circa 30 cm l’una dall’altra.
Trascorso il periodo vengono tirate fuori dall’acqua e, dopo aver praticato loro un piccolo foro sul guscio, vengono appese 2 a 2 ad una cima, tramite un filo di nylon. Le cime vengono calate in mare ad una profondità da 3 a 8 metri.
Dopo un anno circa, le ostriche vengono riportate in laboratorio per il ‘greffage’. Questa fase delicata, a Raroia, viene eseguita da 4 ‘chirurghi’ cinesi. L’attività consiste nell’inserire nella tasca delle gonadi dell’ostrica un nucleo ed un piccolo pezzo di mantello, da cui si svilupperà la perla. Per fare questo il ‘greffeur’ apre le ostriche di un centimetro con una pinza divaricatrice, e con dei ferretti sterili incide la tasca, vi inserisce un piccolo nucleo (di plastica) ed un pezzettino di mantello, la madreperla che ricopre l’interno dei gusci. La selezione del mantello viene fatta preventivamente scegliendone con cura il colore in quanto sarà questo a determinare quello della perla. Terminata questa operazione le ostriche vengono riportate in mare, ora appese singolarmente alla cima, ad una distanza di circa 30 cm l’una dall’altra.
Dopo un altro anno le ostriche vengono riportate in superficie, questa volta per estrarre la perla. L’operazione viene fatta con delicatezza, se questa verrà sottoposta ad un nuovo ‘greffage’. Un’ostrica può produrre fino ad un massimo di 4 perle.
Ostrica a fine ciclo |
Un giorno andiamo anche alla ricerca del punto in cui è naufragato il Kon-Tiki. Abbiamo le coordinate di un piccolo monumento eretto in onore dell’equipaggio nel 2007, 16°03,87S – 142°21,546W. Si tratta di una targa che troviamo in mezzo ad un motu, semi-sepolta dalla vegetazione.
Insieme a Sikkim e Refola ci spostiamo a Makemo.
Ci fermiamo al piccolo villaggio di questo atollo. Siamo tutti a secco di frutta e verdura, merce rara in questa zona del mondo. Purtroppo i rifornimenti arrivano da Tahiti soltanto una volta alla settimana e tutto viene acquistato dalla gente del posto il giorno stesso. Non siamo fortunati, troviamo i 2 piccoli negozi completamente sforniti. Pazienza, continueremo a mangiare pesce, anche se con prudenza, a causa della ciguatera, una tossina presente in un’alga della barriera corallina di cui si nutrono i piccoli pesci che a loro volta vengono mangiati dai predatori, entrando così nella catena alimentare. E’ quindi meglio non mangiare pesce pescato all’interno degli atolli, senza aver prima chiesto consiglio ai pescatori del posto. Ci stiamo specializzando nella pesca dei polpi, esenti da ciguatera, che spesso cuciniamo alla galiziana, come da ricetta degli amici spagnoli.
Oppure raccogliamo granchi per una paella de mariscos
Ma non disdegniamo nemmeno l’Aphareus furcatus, della famiglia dei dentici, pescato alla traina.
Dopo aver visitato anche Tahanea, un atollo disabitato, ora siamo a Fakarava, dove finalmente ritroveremo Alex e Flo che con il loro mini-transat hanno completato la traversata da Galapagos alla Polinesia e stanno arrivando dalle Marchesi. Hanno avuto diversi guasti e rotture ma ce l’hanno fatta! Li aspettiamo con gioia.
Continuiamo a tracciare la nostra posizione su www.youposition.it/it/map/3445/andare-per-mare-per-conoscere-la-terra.aspx