Andare per mare, per conoscere la terra



martedì 31 gennaio 2023

Vinaka Fiji, Kia Ora Aotearoa

In questi ultimi mesi siamo rimasti molto focalizzati sul presente. L’esplorazione di Fiji è stata un’esperienza intensa e molto gratificante.  
Tra poco, però, comincerà la stagione dei cicloni ed è ora di guardare avanti. Abbiamo deciso che non proseguiremo verso ovest, vogliamo restare in Pacifico, c’è ancora tanto da vedere in questo immenso oceano. Vorremmo tornare in Polinesia e da lì, l’anno prossimo, rivolgere la prua a nord verso le Hawaii e l’Alaska. Facciamo una bozza di programma che deve tenere conto di molteplici fattori, dai vincoli di stagionalità, alla rotta da seguire (le traversate saranno lunghe e non sempre a favore di vento), alle formalità burocratiche richieste dai paesi che intendiamo visitare. Ed è approfondendo quest’ultimo punto che scopriamo che per entrare negli USA in barca non basta l’ESTA, viene richiesto il visto B1/B2, un visto multi-ingresso della durata di 10 anni. Il suo rilascio  però è soggetto ad un colloquio presso l’ambasciata.
Verifichiamo se a Papeete, dove faremo l’ultima sosta prima di fare rotta sulle Hawaii, c’è l’ambasciata americana ma purtroppo c’è solo un’agenzia consolare che non fornisce visti. Chiediamo quindi al consolato di Auckland, ma il primo appuntamento disponibile è fra tre mesi, troppo tardi. Ci rivolgiamo infine all’ambasciata USA di Suva, che ci fissa il colloquio per il 17 novembre.
Cosa fare in queste tre settimane di permanenza imprevista a Fiji? Decidiamo di andare ad esplorare il grande arcipelago di Astrolabe  Reef, a sud di Viti Levu. Approfittiamo di un piccolo fronte per percorrere le 100 miglia, a favore di vento, verso la nostra meta.
Con una tranquilla navigazione notturna, spinti da un debole vento da ovest-nord-ovest, costeggiamo il lato sud dell'isola di Viti Levu. Alle prime luci dell'alba filiamo la lenza e dopo neanche un minuto abbocca un grande pesce. È un lottatore molto più determinato del marlin del mese scorso. Si inabissa e si prende qualche centinaio di metri di filo. Quando finalmente riusciamo a portarlo sottobordo tira con tutta la forza per restare in profondità. Solo agli ultimi metri di filo riusciamo a vederlo, è un tonnazzo enorme!
Tirarlo su è un'impresa. Adottiamo la tecnica di sollevargli la testa fuori dall'acqua per soffocarlo e intanto gli versiamo in bocca un po' di rum per stordirlo, poi, agganciato alle branchie con il rafio, con grande fatica riusciamo a portarlo a bordo. Peserà almeno 40 kg.

Poche ore dopo aver finito di pulire e sfilettare il tonno ancoriamo ad Ono, una delle isole di Great Astrolabe Reef. Scendiamo a terra con un mazzo di kava e una grande bacinella piena di tranci di pesce. Ci accoglie Suli, un giovane pescatore che ci accompagna dal chief. Dopo il rito del sevusevu gli offriamo il pesce pescato, con grande gioia sua e della moglie. Saranno loro a distribuirlo nel villaggio. Ce n'è per tutti!
Nelle due settimane successive gironzoliamo tra le isole di questo arcipelago, circondato e protetto da una barriera corallina lunga quasi 100 km.


Dravuni, l’isola più a nord, è da cartolina. Il villaggio è molto ordinato e pulito con  casette colorate ombreggiate da palme e alberi da frutta. Con un passeggiata di mezz'ora si raggiunge il punto più alto da cui si gode di una vista notevole sull’arcipelago e su Astrolabe Reef.



Si puo vedere in lontananza l'Atrolabe Reef che circonda l'arcipelago


La vicina Namara è più piccola e disabitata, ma un abitante di Dravuni ci dice che  in passato è stata utilizzata come set per un reality show di sopravvivenza, tipo Survivor. Il fondale dell’unico ancoraggio è disseminato di teste di corallo, adatto solo in condizioni di calma, ma la trasparenza ed il colore dell’acqua sono irresistibili.
 


A Buliya ci fermiamo una settimana, con la popolazione si instaura un buon feeling.


Siamo sorpresi di incontrare anche due cinesi. Comunicare con loro è difficile perché parlano solo cinese e qualche parola di fijiano. I bambini del villaggio, che ci accompagnano ovunque, ci spiegano che l’attività dei cinesi è di raccogliere  cetrioli di mare, per commercializzarli. Pare che in Cina siano molto apprezzati. Ci fanno vedere il processo di lavorazione che prevede lo spurgo in una grande bacinella d'acqua, poi vengono messi a bollire in un pentolone e infine ad abbrustolire sulla griglia. Vi lasciamo immaginare l’olezzo che si diffonde nell’aria. Ci chiedono se vogliamo assaggiarli, ma rifiutiamo categoricamente! Una nostra amica giapponese ci confermerà che anche in Giappone i cetrioli di mare vanno forte, e li mangiano pure crudi.... !


Stabilito un rapporto di confidenza con i bambini, facciamo un patto con loro: se ci aiutano a raccogliere un po’ di frutta, possono venire a giocare in barca. Il risultato sarà che la ZoomaX si ritroverà piena di papaye, manghi, banane e … di bambini!



 
La stagione dei cicloni si sta avvicinando, gli occasionali piovaschi tropicali si trasformano sempre più spesso in piogge torrenziali, la temperatura aumenta sensibilmente, in barca abbiamo 30 e + gradi. Da Astrolabe ci trasferiamo a Suva per andare all’ambasciata americana. 
 

Nella capitale non ci sono marina, ancoriamo in prima battuta davanti al Royal Suva Yacht Club, nome altisonante per un fangoso ancoraggio costellato di relitti e carrette del mare. Unica nota positiva è la possibilità di rifornirsi di carburante, per la ZoomaX, con le taniche. Il giorno successivo troviamo un ancoraggio più tranquillo e sicuro a Lami, nella periferia di Suva, a Nubulekaleka Bay.
24 ore dopo il colloquio presso l’ambasciata americana, ripartiamo da Suva con il visto B1/B2 stampato sui passaporti e dirigiamo verso Denarau per prepararci alla partenza.
Facciamo ancora in tempo a salutare Ale e Max di Y2K che si fermeranno a Fiji fino al prossimo anno. Il 23 Novembre partiamo per la Nuova Zelanda insieme ad altre sei barche.

La traversata si rivelerà piuttosto frustrante, caratterizzata da vento in prevalenza debole intervallato da groppi talvolta violenti. 
 
 
Navigare in queste condizioni richiede un’attenzione costante, perché per andare avanti con poca aria si è costretti a tenere tutta la tela fuori, anche al buio. Una notte vediamo comparire una macchia nera che oscura il cielo stellato. Il radar inizialmente non mostra niente, poi man mano che ci avviciniamo conferma che si tratta di un groppo. Facciamo in tempo a prendere una mano di terzaroli alla randa ed a sostituire il fiocco con la trinca prima che ci investa! All'accensione del motore per effettuare la manovra, una forte vibrazione ci indica che abbiamo preso qualcosa nell'elica, quindi lo spegniamo subito senza forzare. Il groppo ci fa andare a spasso, fuori rotta, per un'oretta poi il cielo si ripulisce, il vento diminuisce e si rimette a ovest-nord-ovest.
Al mattino aspettiamo che ci sia una buona luce per tirare giù le vele, fermare la barca e verificare il problema all’elica. Paolo si tuffa sotto la barca e individua subito che si tratta di un grande sacco, tipo quelli delle patate fatti di migliaia di striscioline di plastica intrecciata, che ha avvolto completamente l'elica. Per fortuna abbiamo subito spento il motore, evitando danni. Paolo riesce facilmente a tirarlo via nonostante la barca ballonzoli tra le onde, e riprendiamo la navigazione.
A metà traversata, le previsioni meteo annunciano la formazione di una brutta perturbazione a sud-ovest. Dobbiamo cercare di atterrare prima che incroci la nostra rotta. L’arrivo è di bolina con oltre 30 nodi di vento, ma per fortuna siamo già a ridosso della Nuova Zelanda, quindi il mare è piatto. Veniamo sparati dentro a Bay of Islands a 12-13 nodi di velocità, dopo 7 giorni di navigazione al rallentatore!
Sono le 20:30 del 30 Novembre quando ormeggiamo al Quarantine dock  di Opua, che ben conosciamo. Le autorità verranno a bordo domattina. Una notte di sonno ristoratore ci attende!
 
Il 2 dicembre, con un’altra bolinata di 80 miglia raggiungiamo Whangarei. Ci viene assegnato un posto sul nuovo pontile appena inaugurato proprio di fronte al Hundertwasser Art Center, aperto pochi mesi fa.
 

Ci mettiamo subito all’opera per fare provviste in vista della lunga traversata verso la Polinesia e dedicarci ad un paio di immancabili lavori di manutenzione:
Tiriamo giù randa e fiocco e le portiamo dal velaio per qualche riparazione.
Una piccola perdita ci induce a sostituire il tubo di scarico del motore. L’operazione si rivela più complessa del previsto a causa di un lavoro malfatto in fase di costruzione, che ci costringe a smontare il raccordo di alluminio che attraversa la paratia tra l’interno della barca e la timoneria per farlo modificare da un saldatore.

Scorta di parmigiano, pecorino e ricotta salata acquistati da un importatore di Auckland


Intanto ritroviamo con gioia amici che non vedevamo da tempo e ci facciamo coinvolgere dall’atmosfera natalizia che avvolge il marina.
 




Il 22 dicembre partiamo per le Gambier, l'arcipelago più a est della Polinesia Francese. Ci aspettano circa 20 giorni di navigazione. Per 4 giorni facciamo rotta sud-est alla ricerca dei venti occidentali prodotti dalle basse pressioni che ruotano intorno all’Antartide (nell’emisfero australe, il vento intorno ad un sistema di bassa pressione circola in senso orario, al contrario dell’emisfero boreale). Quando siamo a 43° sud le previsioni annunciano però l’arrivo di una depressione tropicale da nord-ovest che si spingerà fino alle nostre latitudini. Per non trovarci a lottare controvento, dobbiamo lascarla sfilare tenendola a dritta e girarle intorno sul lato nord, quindi invertiamo la rotta e risaliamo verso nord. Durante una manovra per prendere una mano di terzaroli, la randa si strappa all’altezza di un carrello. Non è un danno grave ma non ci consente più di issare o ammainare la vela in sicurezza. La riparazione inoltre non può essere fatta a mano ma richiede gli strumenti di un velaio. Decidiamo quindi di fare dietrofront e tornare in Nuova Zelanda. Auckland si presenta a noi alle prime luci dall’alba del 1 gennaio. Regna un silenzio inconsueto, la città sta ancora dormendo dopo i bagordi di Capodanno. Ormeggiamo al marina di Westhaven, e ci mettiamo anche noi in branda!
 

 
Questi 10 giorni di navigazione sono stati un assaggio di una traversata che sapevamo essere complicata, con un meteo imprevedibile. Abbiamo avuto quasi tutte le condizioni di vento e mare possibili, dalla calma piatta a tre burrasche con vento fino a 50 nodi e onde frangenti. 





Ormai è passato un mese dal nostro ritorno in Nuova Zelanda. La randa è stata riparata e rinforzata lungo tutta la ralinga.
Abbiamo anche approfittato di questa sosta per installare un nuovo strumento di comunicazione, l’Iridium Go, che si aggiunge al satellitare Inmarsat e alla radio SSB. Oltre a consentirci di comunicare via telefono, sms ed e-mail, l’Iridium GO trasmette  automaticamente la nostra posizione GPS. L’aspetto più interessante, per chi ci vuole seguire, è di poter vedere in tempo reale le condizioni meteo in cui ci troviamo a navigare. Questo è il link per accedere alla pagina dedicata a ZoomaX.
 
Pur essendo pronti da una decina di giorni, non riusciamo a ripartire a causa delle avverse condizioni meteo. Se è normale che durante il periodo estivo le basse pressioni che circolano intorno all’Antartide scendano di latitudine, il fenomeno climatico della Niña, presente quest'anno, le porta ancora più a sud. All’altezza della Nuova Zelanda si è formato un sistema di alta pressione stazionario. Il risultato è che alla nostra latitudine (35°S) ci sono constanti venti da est, sui 40-45° sud non c’è aria e bisogna scendere fino a 50°S per trovare il vento da ovest. È quello che probabilmente faremo, se non vogliamo restare qui fino alla fine dell’estate, ma questo ci obbligherà ad una traversata molto più lunga.