Andare per mare, per conoscere la terra



giovedì 30 aprile 2015

Sudan

Siamo in Sudan finalmente! Questo angolo di mondo così remoto e sconosciuto ai più, a noi è molto caro. Proprio qui è cominciata la nostra storia d’amore, e oggi ci ritorniamo, con 10 anni di più sulle spalle, ma grati per quello che la vita insieme ci ha riservato.
La scintilla allora scattò sotto la superficie del mare, ed è stata proprio la comune passione per il grande blu a portarci lontano.

L’arrivo a Suakin è molto suggestivo. Si trova al fondo di una marsa (fiordo  del Mar Rosso) che penetra nel deserto per oltre due miglia. Ancoriamo a sud dell’isola dove si trova l’antica città, oramai quasi completamente distrutta. Il fondo sabbioso è buon tenitore e l’ancoraggio protetto a 360°. 

Poco dopo un uomo a terra attira la nostra attenzione. Si tratta di Mohammed Bubaker, l’agente che si occuperà della nostra clearance e del permesso di navigazione, ci fornirà il gasolio, ci procurerà valuta locale e una sim card per telefono e internet, ci accompagnerà a visitare il museo di Suakin, e ci porterà a Port Sudan per fare cambusa. Il tutto con un’efficienza svizzera e naturalmente  con dei buoni margini di guadagno per lui. 


Ci fermiamo a Suakin una settimana.
Il centro della città antica sorge su un’isola, le sue origini risalgono al medioevo, e per molti secoli, sotto il dominio ottomano, egiziano e britannico fu il principale porto del Mar Rosso, da cui partivano verso oriente preziose materie prime provenienti da tutta l’Africa: oro, gomma, avorio, caffè, cotone; da qui salpavano anche navi cariche di schiavi .
L’apertura del Canale di Suez nel 1866 rappresentò il momento di massimo splendore ma anche l’inizio del declino di Suakin, in quanto porto inadeguato per le dimensioni delle navi, che diventavano sempre più grandi.
Ai primi del ‘900 gli inglesi fondarono Port Sudan, e vi trasferirono tutto il traffico marittimo.
Purtroppo è bastato un secolo di abbandono per trasformare gli edifici in pietra corallina di Suakin in un ammasso di macerie. Solo qualche frammento di muro ancora in piedi per miracolo, ne lascia intuire gli antichi splendori.






A sorpresa tra le rovine spiccano due moschee di dubbio gusto, nuove di zecca.
È stato costruito anche un hotel, opere che ci dicono essere state finanziate e realizzate dai turchi.

Anche la parte di città vecchia sulla terraferma sembra essere stata colpita da gravi calamità, ma resta carica di fascino.



Una coppia va a spasso, lei non ha scelto le scarpe adatte, lui da buon cavaliere le da una mano. Non perdete i dettagli!


Nel museo di Suakin, finanziato da un privato cittadino, si ripercorre la storia di questa gloriosa città ricreando gli ambienti urbani e domestici.




Quando il vento finalmente diminuisce ripartiamo con AGoGo. È ora di far conoscere ai nostri amici quello che per noi è l’ambiente sottomarino più bello del mondo. Sanganeb, Sha’ab Rumi, arriviamo!!!
Ci siamo immersi decine di volte su questi reef, ma ogni volta l’emozione è grande. La quantità e varietà di pesci e di corallo non ha eguali, ad ogni tuffo si può ammirare l’intera catena alimentare marina, la limpidezza dell’acqua è straordinaria, insomma, un vero godimento.  


Siamo ancorati nella laguna di Sha’ab Rumi insieme al Felicidad, dove ritroviamo Aurora, cara amica di vecchia data, che insieme a Marina ci coccolerà, nutrirà, e vizierà per tre giorni. L’energia, la passione, l’entusiasmo e la generosità di queste ragazze sono inesauribili, trascinandoci ogni volta con rinnovata curiosità ad ammirare questo mondo straordinario. 

Da Sha’ab Rumi, dirigiamo a nord. L’ultima tappa sudanese è a Marsa Shin’ab. Il centro del canale è abbastanza profondo, circa 25 metri, sul bordo sale ripida la barriera corallina. Seguiamo il percorso tortuoso della marsa per circa due miglia, poi si divide in tre profonde anse. Ci infiliamo nel ramo centrale in direzione ovest dove al fondo domina un immenso albero solitario circondato dal deserto. Sullo sfondo montagne anch’esse sabbiose. Non c’è alcun segno di vita salvo una pista su cui transita saltuariamente un camion lasciandosi dietro una scia di polvere.





Il mattino successivo salpiamo, destinazione Egitto, la meteo è favorevole (quasi totale assenza di vento) e ci hanno consigliato di evitare soste nel tratto di costa di 100 miglia a cavallo tra Egitto e Sudan - il confine è ancora oggetto di disputa - perché presidiato da militari di entrambe le parti, a volte un po’ nervosetti.
Giustappunto... mentre stiamo ripercorrendo la marsa in uscita ci viene incontro una lancia con cinque uomini a bordo, di cui uno solo in divisa, ed un mitra in bella vista montato a prua.


Niente li identifica come militari, ma a questo ormai ci siamo abitutati fin dal nostro arrivo in Africa. La lancia si affianca a ZoomaX, gli uomini non parlano inglese ma hanno un atteggiamento amichevole. Sporgiamo subito loro il nostro permesso di navigazione a cui danno un’occhiata veloce e svogliata. A quel punto fanno la loro unica richiesta: beers! Neghiamo le birre ma regaliamo loro un pacchetto di sigarette. Contenti ci salutano e vanno da AGoGo a riscuotere il secondo omaggio senza neanche guardare i loro documenti.
In mare aperto la calma è totale, dopo le bolinate degli ultimi tempi la accogliamo con piacere.

giovedì 9 aprile 2015

Eritrea


L’ingresso in Mar Rosso avviene attraverso lo Stretto di Bab El Mandeb. Sono le 3:00 di notte del 25 marzo. Non facciamo in tempo a tirare un sospiro di sollievo per esserci lasciati alle spalle il Golfo di Aden, che 35-40 nodi di vento ci sorprendono con randa piena e fiocco tangonato. Le onde corte e ripide che montano in un attimo ci proiettano immediatamente nella dura realtà dei mari chiusi, dopo tre anni di navigazione tra le lunghe e dolci onde oceaniche! Alla seconda surfata di ZoomaX a 16 nodi ci diciamo che è il caso di fare qualcosa. Prima di tutto bisogna chiudere il fiocco e disarmare il tangone, operazione da giocolieri con questo mare e al buio pesto! Poi ci portiamo al vento per tirare giù la randa. Appena ci rimettiamo in rotta, con il vento in poppa, una raffica si infila tra le stecche della randa, aprendola a ventaglio... sembra l’enorme coda di un pavone! Rimettiamo di corsa la prua al vento e appena riusciamo a rinfilarla nel lazy bag, la assicuriamo con delle cime al boma. Il tutto mentre la barca continua a saltare sulle montagne russe! A quel punto apriamo la trinchetta e... riprendiamo fiato. Welcome to the Red Sea!!!


Alle prime luci dell’alba alla nostra sinistra prende forma il profilo della costa africana. Siamo al confine tra Djibouti e l’Eritrea. Dopo tanti atterraggi tra il verde delle palme e della rigogliosa vegetazione tropicale, qui i colori dominanti sono il beige e l’ocra delle aride colline che si affacciano sul mare. Individuiamo un gruppo d'isolette eritree, dove dirigerci per una notte di riposo. 


Caliamo l’ancora a ridosso di Darmaika ma, poco dopo arriva una lancia con 4 militari armati che con fare minaccioso salgono a bordo di AGoGo. Per fortuna le doti diplomatiche e persuasive di Luana e Romano corredate da un paio di pacchetti di sigarette in regalo li convincono a concederci di restare per la notte.
Nei giorni seguenti continuiamo la risalita verso Massaua fermandoci ancora in un paio di isole delle Dahlak. A Mojeidi troviamo ad attenderci di nuovo i militari, anche in questo caso comprensivi ci consentono la sosta per la notte. 
A Shumma siamo soli e azzardiamo quindi una visita a terra.
Facciamo una lunga passeggiata, finalmente ci possiamo sgranchire le gambe dopo due settimane confinati nei pochi metri di barca. L’isola è disabitata, inospitale, battuta dal vento; da lontano sembra brulla, in realtà la vegetazione non manca, arbusti spinosi, fiori del deserto, praterie dorate, qualche isolata acacia. Troviamo anche dei residuati bellici italiani: 4 cannoni con un marchio di fabbricazione italiana. Un alto faro domina l’isola, probabilmente anch’esso costruito dagli italiani ad inizio ‘900; peccato che sia in disuso ed in stato di abbandono.








L’arrivo a Massaua non è dei più accoglienti. Per evitare l’ingresso in porto all’imbrunire, decidiamo di ancorare per la notte sul lato sud della città, in un’area che le carte indicano come zona di ancoraggio.
Un’ora dopo arriva un lancia con 2 militari armati a bordo che, ci intimano di salpare e di seguirli in porto. A niente vale il nostro tentativo di convincerli a non farci spostare al buio e non ci resta che eseguire gli ordini.
Il mattino dopo veniamo autorizzati a scendere a terra per sbrigare le formalità doganali. 
La struttura portuale è dotata di attrezzature moderne e sovradimensionate per l’effettiva intensità del traffico di navi, immaginiamo sia stata realizzata con fondi internazionali, evidentemente mal calibrati.

AGoGo a Massaua
Il contrasto è ancora più netto quando superati i cancelli del porto ci veniamo a trovare in una piazza circondata da palazzi di antico sfarzo e pregio archittetonico, ora in totale rovina. La vecchia Massaua risale al XVI-XVII secolo, ad opera dei turchi. Gli edifici sono in pietra corallina in stile ottomano.






La guerra per l’Indipendenza dall’Etiopia sembra finita ieri, invece che nel 1991. Si cammina fra edifici bombardati e la povertà è estrema. 
L’impressione è che l’attuale governo dedichi più energie a mantenere il paese nell’isolamento che a risollevarlo dalle devastazioni della guerra e a rilanciarne l’economia. Comunicazioni e movimenti delle persone sono sotto controllo: c'è un unico operatore telefonico, dello stato. Internet è praticamente inesistente; per spostarsi tra una città e l'altra si devono chiedere permessi lunghi da ottenere; il cambio della valuta in banca ha un tasso imposto totalmente fuori mercato. Il risultato per noi, sono prezzi con cui non si vivrebbe nemmeno in Svizzera. La gente dà l'impressione di accettare questo status quo con rassegnazione.
Veniamo accolti con calore. Si percepisce la nostalgia degli anziani e non solo, per i 50 anni di occupazione italiana. 


Gli italiani hanno lasciato un buon ricordo e tante infrastrutture che ancora oggi vengono utilizzate e mostrate con orgoglio.

Organizziamo una visita ad Asmara. La capitale si trova a 2.400 metri di altitudine. Per arrivarci percorriamo 120 km di strade e ponti costruiti all’epoca del colonialismo. Su uno di questi, intitolato al Generale Menabrea, domina la scritta in rilievo ‘Ca custa lon ca custa’. Sorridiamo alla traduzione della guida ‘Whatever it costs, it must be completed’, mentre ci spiega che questa era stata la risposta via telex che il generale inviò agli operai impegnati nella costruzione del ponte. 





Di fianco alla strada corre la ferrovia, con il treno ancora a vapore, anch’essa costruita dagli italiani. Oggi è in disuso salvo per rari scopi turistici.
Il paesaggio è vario, attraversiamo prima una lunga piana arida e disabitata, incontrando solo dei dromedari con i loro pastori. Poi la strada comincia ad arrampicarsi tortuosa su per le montagne, anch’esse brulle e polverose, ma con un clima mite. Attraversiamo diversi villaggi, dove la vita sembra ferma al secolo scorso. La fauna non manca, mandrie di capre vengono portate al pascolo dai bambini, famiglie di babbuini si avvicinano alla macchina con atteggiamento minaccioso, rapaci volteggiano in cielo.
Il traffico è quasi inesistente, incrociamo soltanto dei camion carichi di container che fanno la spola tra una miniera di rame ed il porto di Massaua per essere imbarcati sulle navi dirette in Cina.
Ad Asmara l’influenza italiana è palese. Potrebbe essere una qualsiasi cittadina di provincia, un po’ malandata, con viali alberati, molti edifici di stampo fascista, qualche eredità lasciata dall'industria, bar con i tavolini sui marciapiedi, e tanta gente che parla ancora un po' d'italiano. 




Asmara resta comunque una città africana, con i suoi volti, profumi e colori






Visitiamo il Medeber, impressionante centro di riciclo. A prima vista  sembra una discarica, in realtà dietro alle tonnellate di materiale dismesso si nascondono minuscoli laboratori in cui centinaia di uomini (e purtroppo anche di bambini) trasformano questo materiale in ogni possibile oggetto o strumento di utilità pratica.  Con le latte di vernice o di olio vengono realizzate stoviglie, pentole, fornelli a carbonella, con i resti dei copertoni di auto o camion si fanno sandali e scarpe, pezzi di ferro di recupero vengono tagliati e saldati per costruire cancelli, letti, cariole. Non viene buttato niente e tutto viene realizzato a mano, senza l’ausilio di macchinari.


 
Al rientro a Massaua, ripartiamo in direzione nord. La prossima destinazione sarà il Sudan.
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