Andare per mare, per conoscere la terra



mercoledì 2 gennaio 2019

Argentina



Siamo arrivati a Ushuaia, meta tanto attesa di questa parte di viaggio. Ma prima dobbiamo fare un passo indietro.

Le 1500 miglia di navigazione da Guarujà, in Brasile, fino al confine settentrionale della Patagonia argentina hanno avuto più il sapore di un trasferimento che di un viaggio esplorativo. Le tappe sono state dettate dalle condizioni meteorologiche, che più volte ci hanno costretto a soste forzate per il passaggio dei fronti freddi che si susseguono con regolarità lungo la costa meridionale del Sud America.
Ci fermiamo a Portobelo, da dove, con un taxi, raggiungiamo Itajaì per fare le pratiche d’uscita dal paese. La meteo ci costringe ad un’altra sosta poco lontano, a Bahia Pinheira dove, il giorno della nostra partenza, abbiamo il primo incontro con una balena franca australe. Appena usciti dalla baia, in pochi metri d’acqua, la troviamo che si gongola in compagnia del suo piccolo.


Successiva sosta tecnica è Rio Grande che, alla partenza, ci riserva un emozionante shaker da standing waves su basso fondale, condito con un rasetto alla prua di un grosso cargo MSC proprio all’uscita dal canale dove la corrente impazza.
La navigazione fino a Punta del Este è buona e rapida. 


Dopo una notte all’ancora dirigiamo su Piriapolis. Qui facciamo i nostri primi incontri ravvicinati con i leoni marini ad un pelo. Sono enormi, ben più grandi di quelli conosciuti nel mare di Cortéz ed alle Galapagos. Alcuni esemplari pare abbiano eletto il porto a loro dimora durante le giornate di cattivo tempo e dormono al sole, indifferenti alle persone che si avvicinano loro meravigliate. Nemmeno le rimostranze del cane del cantiere riesce a scomporli più di tanto.
 

Da Piriapolis, in Uruguay, dove abbiamo aspettato invano per dieci giorni una finestra meteo buona per risalire il delta del Rio del Plata ed arrivare a Buenos Aires, facciamo rotta su Mar del Plata, ultimo porto prima di entrare in Patagonia.
L’ormeggio allo Yacht Club Argentino è precario, ci incastriamo letteralmente fra due pali con la prua rivolta ad un pontile semi-galleggiante a cui ci attacchiamo alla meno peggio. In bassa marea il fondale è di 2 m. Il bulbo sicuramente sprofonda nel fango.

A Mar del Plata ci raggiungono gli amici Monica e Danilo, che a bordo con noi condivideranno le meraviglie e la difficile navigazione di questa parte di mondo.

Seguono giornate intense di lavoro e preparazione.
Acquistiamo: 440 mt di cime galleggianti, un motore fuoribordo 2 tempi Yamaha 15 CV, 6 taniche di gasolio da 25 lt, una sega ed una spatola tagliente per tagliare il kelp. In falegnameria facciamo tagliare due assi di legno a sostegno delle taniche in coperta, il velaio produce due teli antirollio per cabina ospiti e cuccette dinette e un telo di plastica per raccogliere acqua piovana; in mancanza di meglio compriamo due tappetini di bamboo da spiaggia, da mettere sotto il materasso della cabina ospiti per limitare l’accumulo di umidità. Facciamo il pieno di gasolio con una bettolina della Shell (V Power) acquistata in comunità con altre barche. Riempiamo la bombola del gas e facciamo cambusa (supermercato Carrefour piuttosto scadente, meglio la catena Disco).

Al termine dei preparativi, la prima finestra meteo si presenta subito. In Argentina, ad ogni porto è obbligatorio fare ingresso ed uscita, ed in navigazione comunicare la posizione alla Guardia Costiera (Prefectura). Completata la burocrazia, a mezzanotte del 3 dicembre lasciamo Mar del Plata.

Dopo quattro giorni di navigazione, con una sosta di una notte a San Blas per lasciar passare un fronte freddo, finalmente raggiungiamo il nostro primo vero ancoraggio patagonico, Caleta Horno. E’ un fiordo che dal mare non si vede, l’entrata sembra cieca. Le pareti rocciose sono rossastre, ricoperte di un folto strato di alghe verde brillante sulla linea della marea che ha un’escursione tra i 4 ed i 5 metri. 



L’equipaggio si trova per la prima volta alle prese con quello che viene definito  lo “spider mooring”, qualcosa di simile a quanto si fa in Turchia e Grecia: ancora e cime a terra ma qui, anche di prua.



Caleta Horno, non sappiamo bene da dove abbia preso il suo nome ma, con nostro stupore, fa veramente un gran caldo.
Le escursioni a terra ci rivelano un paesaggio completamente diverso da quanto visto finora, un’ arida distesa infinita, senza alberi, solo bassi arbusti e sporadici cespugli spinosi. L’orizzonte è lontano.



Sembra non esserci anima viva invece, guardando bene, troviamo guanachi, pecore, condor, anatre, una specie di cigno e vari uccelli che non sappiamo classificare; troviamo anche inconfutabili segni della presenza di predatori.  




Mentre Paolo sulla spiaggetta sta sistemando il dinghy, si ritrova a 50 cm dal sedere una solitaria leonessa marina che lo osserva incuriosita.  Si tuffa e riemerge come se volesse invitarci ad andare in acqua con lei.


In effetti, poco distante c’è Isla Leones dove risiede una vasta comunità di leoni marini e di pinguini magellanici. Ci andiamo con il gommone. All’arrivo, i leoni marini giovani e le femmine, spaparanzati sulla spiaggia e sulle rocce, si tuffano in massa in acqua per venirci incontro, mentre i maschi esprimono i loro disappunto con ruggiti profondi. Ci inseguono, giocano fra di loro, ci guardano con curiosità sollevando fuori dall’acqua la testa e parte del corpo, si avvicinano molto, sembra quasi ci vogliano annusare. Risulta subito evidente che le loro intenzioni non sono bellicose. Se volessero ci metterebbero un attimo a capovolgere il gommone. A terra intanto i maschi dominanti continuano a richiamare la comunità ribelle, senza grande successo. 






Soltanto quando ci allontaniamo li vediamo tornare tutti sulla spiaggia.
Da Caleta Horno ci spostiamo a Isla Tova, 12 miglia ad ovest. Sulla grande spiaggia vive una folta comunità di pinguini magellanici. Andiamo a terra, li filmiamo e scattiamo foto, si lasciano avvicinare fino ad una distanza di sicurezza, superata la quale si tuffano in mare. Ci sono anche tante altre specie di uccelli tra cui gli Oyster Catcher che ricordiamo bene dalla Nuova Zelanda, con il becco e gli occhi arancione. Oltre la spiaggia crescono bassi arbusti spinosi. Ci avviciniamo e vediamo che sotto ciascun cespuglio si nasconde un pinguino che cova. Intravediamo anche alcuni piccoli. Altri animali popolano quest’isola, incrociamo un armadillo, e diversi piccoli roditori, che sembrano un incrocio tra uno scoiattolo ed un topo, ma senza coda.









Unica nota fastidiosa di questa visita a terra è la quantità di mosche che a centinaia ci inseguono senza tregua.
Al ritorno in barca diversi pinguini ci accompagnano. La loro nuotata è sorprendente, scivolano veloci sulla superficie del mare saltando fuori come fossero dei delfini.  


Lasciamo a malincuore questo eden e ci avviamo verso Puerto Deseado. E’ una cittadina anonima e piuttosto degradata dal punto di vista architettonico. Le sue attrattive risiedono nella Ria (anticamente un fiume che si è prosciugato nel cui letto il mare risale verso l’interno per 40 km), ricca di fauna, pinguini, leoni marini, delfini, uccelli vari. 10 miglia più a sud, sull’isola Pinguinos risiede una colonia di pinguini dalla cresta gialla, unici esemplari in Sud America.
Da qui partiamo per raggiungere lo Stretto di Le Maire, sulla punta meridionale del Sud America. Questo tratto di navigazione va pianificato con attenzione, in quanto lungo le 500 miglia di costa non ci sono ridossi. Si deve partire con una finestra meteo favorevole, per almeno 4 giorni (piuttosto rara da queste parti). A posteriori possiamo dire di avere avuto fortuna, il vento è sempre stato clemente, anche troppo; a farci tribolare è stata la corrente, a favore con marea calante e contraria con la marea crescente a causa della grande escursione di marea di questa zona (10-12 metri). Con vento e corrente di direzione opposti, la navigazione si trasforma in un giro sulle montagne russe, ci si ritrova in un mare che ribolle in modo disordinato con onde da tutte le direzioni. Ed è in queste condizioni che attraversiamo lo stretto di Le Maire da ovest verso est, per raggiungere l’Isla de Los Estados. Onde di tre metri ed una forte corrente contraria ci fanno arrancare a due nodi per qualche ora. Ma alla fine ce la facciamo e all’imbrunire l’isola appare in tutta la sua maestosità.  


Ancoriamo a Puerto Hoppner, nella baia esterna, con la poppa rivolta alla spiaggia e tre cime a terra.
Il giorno successivo andiamo in esplorazione con il tender nella laguna interna. Lo stretto passaggio che divide le due baie fa impressione. Siamo a mezza marea, misuriamo una larghezza di 14 metri e c’è una forte corrente entrante. Per fortuna il passaggio è molto corto.


La baia interna è incredibilmente bella. Sembra di essere in un lago di montagna, circondati da ripidi pendii. In alto la neve. Il paesaggio cambia a seconda del ciclo di marea. Diversi scogli e isolette appaiono con la bassa, per poi scomparire o lasciare emerso solo qualche ciuffo di vegetazione. Entriamo con la ZoomaX con l’alta marea. Purtroppo i williwaws rendono difficoltosa la manovra per ancorare dietro l’isoletta indicata nella guida. Dobbiamo ripetere l’operazione due volte, Paolo ed Anna in barca, Monica e Danilo sul tender a posizionare le cime sugli alberi. Alla fine siamo comunque soddisfatti. La barca è al sicuro con ancora e sei cime a terra.
 
 
Nei giorni successivi esploriamo la baia con la canoa e facciamo un paio di gite a terra, la prima sul lato est della baia, lasciando il gommone su una spiaggetta che emerge con la bassa marea. Sono indispensabili gli stivali, si cammina su un tappeto muschioso e fangoso che in alcuni tratti è talmente impregnato d’acqua che si sprofonda fino al ginocchio.  Ci arrampichiamo su per la montagna nei pochi tratti in cui la vegetazione apre qualche varco ed arriviamo fin dove la vista, oltre che su Puerto Hoppner si affaccia sul fiordo di fianco, Puerto Parry. 









Dall’alto vediamo anche due laghi nelle vallate sull’altro lato della baia. Ne raggiungiamo uno il giorno successivo, dopo un’ora di camminata tra la fitta vegetazione seguendo le tracce lasciate dagli animali. Pare che nel XIX secolo vennero portati dei cervi sull’isola per fornire cibo ai numerosi naufraghi che approdavano. Le tracce sono effettivamente di animali ungulati.
Il tempo è variabilissimo, a parte il vento che è quasi sempre presente, il cielo cambia continuamente, sole, nuvole, pioggia e grandine si alternano anche 3-4 volte al giorno. La temperatura media è sui 10 gradi.
In barca stiamo bene, con una temperatura di 21 gradi.
Dopo una breve visita il giorno di Natale alla remota base militare di Puerto Parry, dove un presidio di quattro soldati si alterna ogni 40 giorni (sempre che la meteo consenta l’arrivo della barca con il cambio), il 26 mattina partiamo per raggiungere il canale di Beagle.  


La marea dovrebbe iniziare a calare verso le 10:00. Nello stretto di Le Maire, la corrente va verso sud con la marea calante e verso nord con quella crescente. Può raggiungere una forza di 5 nodi nel centro dello stretto e fino ad 8 nodi ai lati. Vicino ai capi se il vento è contrario alla marea si possono alzare onde fino a 10-12 metri. E’ considerato uno dei tratti di mare più pericolosi al mondo.
Le condizioni di vento sono deboli. Quando ci avviciniamo allo stretto constatiamo che la marea è effettivamente favorevole, nel centro del canale raggiungiamo una velocità di 10-11 nodi. Verso Capo Buen Suceso, quando iniziamo a costeggiare la Terra del Fuoco la corrente viene da sud-ovest, rallentandoci pesantemente. A terra il paesaggio non ha le asperità di Isla de los Estados, i rilievi sono modesti, più tondeggianti. Solo sullo sfondo, verso il canale di Beagle, intravvediamo dei picchi innevati.
La navigazione in quest’ultimo tratto di mare aperto è frustrante. Alterniamo vela e motore, assecondando i capricci del vento, che viene da terra molto rafficato, passando da 5 a 30 nodi senza preavviso. Il cielo è plumbeo.




L’ingresso nel canale di Beagle è suggestivo, a dritta la costa della Terra del Fuoco a sinistra prima l’Isla Nueva, poi Isla Picton, infine Isla Navarino. Albatri, pinguini, cormorani in abbondanza. Incrociamo anche diverse balenottere, che vanno in direzione opposta alla nostra. Sono balenottere boreali, fanno 6-7 respiri lasciandoci appena intravvedere la testa ed il dorso e poi si immergono e spariscono.



Prima di arrivare ad Ushuaia, facciamo una sosta ad Harberton, la più antica estancia della Terra del Fuoco, fondata nel 1886 da Thomas Bridges, uno dei pochi uomini che nella storia riuscirono ad instaurare un buon rapporto con i nativi Yàmana, forse l’unico ad imparare la loro lingua. Dedichiamo una giornata alla visita alla tenuta che occupa 22.000 ettari lungo il Beagle, ed è ancora abitata dagli eredi di Bridges. Non si allevano più pecore ma si accolgono turisti e si svolgono attività di ricerca sulla fauna marina. Nell’estancia c’è un piccolo museo, con oltre 3000 esemplari in prevalenza frammenti di cetacei, tutti trovati spiaggiati.
Sono visitabili anche gli edifici in cui si lavorava la lana delle pecore, si costruivano e riparavano piccole imbarcazioni. Raggiungiamo una laguna alla ricerca di castori. Purtroppo loro non si fanno vedere, ma le dighe impenetrabili che hanno costruito confermano senza dubbio la loro presenza. 








Mentre torniamo su ZoomaX a remi con il tender, veniamo scortati da una socievole femmina di leone marino. Sulla riva vediamo anche una volpe.

Da Harberton percorriamo le ultime 35 miglia che ci portano ad Ushuaia, in tempo per festeggiare il capodanno!




Un ringraziamento a Monica e Danilo per le numerose foto da loro scattate, che arricchiscono questo post.

 Per seguire gli spostamenti di ZoomaX, clicca sulla mappa in alto a destra.

1 commento:

Unknown ha detto...

Bellissimo reportage!!!
Un abbraccio!
Max